La maggior parte degli interventi che il terapeuta cognitivo fa nel corso della seduta hanno la forma di domande. E’ essenzialmente attraverso una serie di domande che lo stesso cerca, durante l’incontro, di perseguire gli scopi della terapia: l’identificazione dei pensieri automatici e degli schemi sottostanti, la presa di distanza critica, la valutazione di possibili alternative.
Lo scopo non è mai convincere il paziente di qualcosa, ma più semplicemente di sviluppare una capacità critica rispetto alla pervasività dei propri schemi disfunzionali ( Es: “ Ho ansia perché sono incapace e debole rispetto ai problemi che mi circondano”).
Lo schema cognitivo possiamo immaginarlo come quella finestra sul mondo che ognuno di noi possiede. Rappresenta il modo soggettivo di interpretare un evento appena esso si presenta.
Si attiva in maniera automatica e velocissima, dà forma, colore e sostanza a ciò che viviamo.
Possiamo affermare che ognuno di noi valuta la realtà attraverso un paio di occhiali di colore diverso, ma sempre identico per il soggetto che guarda. Ciò chiaramente determina rappresentazioni mentali fisse, assolute, nel modo di interpretare se stessi, gli altri, le situazioni.
Ed è proprio la difficoltà a guardarsi e a guardare il mondo da più prospettive, in modo flessibile e aperto a più interpretazioni, a reggere e a rinforzare il sintomo nel tempo.
Come ha osservato Lalla (1996), l’efficacia del dialogo socratico, ossia il tipo di dialogo che il terapeuta mette in atto con il paziente fin dalle prime sedute, dipende dal fatto che lo stesso “pone domande tali che l’interlocutore per rispondere deve assumere un punto di vista sopraordinato ed elaborare una metacognizione, ossia una riflessione sui propri stati interni e di conseguenza sul modo di interpretare se stesso e gli altri, giungendo così ad una ristrutturazione dei sui schemi cognitivi”.